Unità di Abitazione di Marsiglia
Le Corbusier – Unité d’habitation a Marsiglia Francia, 1946-1952
Località
Marsiglia, Francia
Anno
1952
Architetti
Le Corbusier
L’Unité d’Habitation di Marseille (Unità di abitazione di Marsiglia) rappresenta una delle realizzazioni pratiche delle teorie di Le Corbusier sul nuovo modo di costruire la città ed è uno dei punti fondamentali di arrivo del Movimento Moderno nel concepire l’architettura e l’urbanistica. L’Unità di abitazione, alta 17 piani, è composta da una successione di 337 appartamenti, quasi come se fossero stati costruiti in serie e poi assemblati, a testimoniare la sua idea, secondo la quale la casa si sarebbe dovuta trasformare in una “macchina per abitare”, adeguandosi al periodo storico rivoluzionato dall’invenzione delle macchine, nel quale possono abitarvi fino a 1500 persone.
Ogni unità abitativa è del tipo duplex, cioè disposto su due livelli diversi accessibili mediante una scala interna. Gli ingressi sono disposti lungo un corridoio-strada situato ogni due piani. Al settimo e ottavo piano sono presenti una parte dei servizi generali necessari alla popolazione (asilo-nido, negozi, lavanderia, ristorante, ecc.), in modo da eliminare, secondo la teoria di Le Corbusier, il salto dimensionale tra il singolo edificio e la città, cosicché il primo divenga un sottomultiplo della seconda. Per lui non esiste una sostanziale distinzione tra l’urbanistica e l’architettura e la sua attenzione si è rivolta a studiare un sistema di relazioni che, partendo dalla singola unità abitativa, intesa come cellula di un insieme, si estende via via all’edificio, al quartiere, alla città, all’intero ambiente costruito.
Un’altra innovazione è rappresentata dal tetto abitabile (o tetto giardino, secondo i celeberrimi “Cinque punti”), il quale, grazie all’utilizzo del calcestruzzo armato, può essere adibito a diverse funzioni sociali e sarebbe potuto divenire, secondo le idee dell’architetto, un enorme giardino pensile.
Osservando il basamento si può notare l’adozione dei pilotis, a forma di tronco di cono rovesciato, per sorreggere tutto il corpo di fabbrica, separando le abitazioni dall’oscurità e dall’umidità derivanti dalla collocazione a terra, ma, soprattutto, rinunciando definitivamente alle mura portanti e quindi affidando il sostegno del solaio ai soli pilastri. L’ennesima intuizione si può evincere dall’arretramento degli stessi pilastri rispetto al filo dei solai. Questa tecnica consente uno sviluppo della facciata indipendente dal resto dell’appartamento e in particolare permette l’utilizzo di finestre a nastro, capaci di scorrere lungo la parete e di fornire un’illuminazione eccellente.
Dopo la seconda guerra mondiale. Il brutalismo di Le Corbusier assume toni ancora più carichi di immediatezza e, per un certo senso, di tragicità. In un mondo ormai dissolto nelle macerie, che senso hanno concetti come la macchina per abitare, le superfici bianche prive di imperfezioni delle facciate libere della villa Savoye, i pilotis e la finestra a nastro?
Con le Unité d’Habitation si realizzano le composizioni architettonicamente più classiche del brutalismo lecorbusieriano in quanto in questi organismi edilizi viene operata la scomposizione degli elementi del progetto in classi: l volume dell’edificio, la gabbia strutturale, il volume del megaron costituito dalla cellula abitativa a doppia altezza, il balcone, il brise-soleil. Questo approccio scompositivo del progetto in parti che vanno a costituire un sistema di elementi multiscalari, se da un lato mette a registro le ricerche in corso sul tema dei numeri infinitesimali e della geometria dei frattali, dall’altro contribuirà a dare la stura a quelle idee architettoniche e urbane basate su supporti fissi e parti mobili dei metabolisti che propongono la capsule architecture e degli utopisti che si spingono oltre fino a prefigurare la plug in city, nonché alle effettive realizzazioni sperimentali olandesi effettuate dal gruppo SAR.
La ricerca urbanistica operata nelle unità di abitazione si occupa di determinare la dimensione ottimale da assegnare a un edificio residenziale nel quale possano essere condensate alcune attività commerciali e servizi di prima necessità. Lunga 137 metri, alta 50 e profonda 24, l’Unità di Abitazione di Marsiglia si sviluppa in altezza su 18 piani nei quali sono distribuite 320 cellule abitative e 1.700 abitanti, dando luogo a un organismo edilizio sollevato dal suolo e sorretto da possenti colonne che lasciano libera l’area sottostante per le attività pubbliche di transito e di svago. L’edificio risarcisce la ferita inferta alla porzione di suolo che da esso è stato occupato, attraverso la collocazione in copertura di un tetto-giardino, di uno spazio aperto destinato al pubblico, ai bambini, a chi ama correre lungo l’anello perimetrale o a chi vi sale per ammirare il panorama.
Se a Marsiglia invece di realizzare un unico edificio si fosse optato per la realizzazione di uno sviluppo residenziale sul modello della città giardino di Ebenezer Howard, lo stesso numero di abitanti avrebbe occupato una superficie di circa trenta ettari, oltre alle strade, ai marciapiedi e alla rete degli impianti.
Sia l’uso del beton-brut che non nasconde le imperfezioni del manufatto, sia la semantica compositiva di un sistema abitativo che accorcia le distanze tra la sostanza e la forma del contenuto con il rifiuto di un abbellimento fine a sé stesso, che la libertà formale di quegli elementi, strutturali e non, accentuati qualificativamente con modellazioni plastiche ai piedi dell’edificio e in copertura, costituiscono altrettante acquisizioni linguistiche delle esperienze progettuali dell’Unité.
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