“Arredare”

Lectio Magistralis tenuta da Carlo Scarpa nel 1964

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Per non dimenticare

Pubblicato il

24 Aprile 2019

Trascrizione del discorso inaugurale dell’anno accademico 1964-65 della IUAV di Venezia

Lectio Magistralis intitolata “Arredare” tenuta da Carlo Scarpa
18 Marzo 1964

Chi mi conosce abbastanza sa il mio patimento in questo momento… 
Parlare in pubblico è sempre stato angoscioso per me. Anche all’inizio di ogni lezione provo una certa titubanza… è un grave difetto che non correggerò più.

Per darmi un po’ di coraggio ho voluto consultare il vecchio vocabolario della Crusca e quello etimologico del Battisti per vedere cosa dicevano alla parola “arredo”. 
Per inciso, il volume della Crusca del 1836 era stampato su carta molto bella, crocchiante: veniva voglia di mangiarla… Il vocabolario della Crusca, alla parola “arredo”, dice soltanto: “provvedere del necessario”. Il Battisti aggiunge che “arredamento” deriva dal gotico “garedàm”, che vuol dire “avere cura”, e dallo spagnolo “arrear” che vuol dire “adornare”… 

Da questi termini molto semplici consegue il principio di necessità. 
Gli arredi sono necessari, da cui il corollario: avere cura degli arredi, della loro conservazione e, soprattutto, della bellezza, cosa questa che mi pare un imperativo categorico per la nostra professione. Così come si provvede alla necessità, mi pare molto logico provvedere alla bellezza, un fatto, questo, insito negli uomini sin dalle origini. Alle origini l’uomo delle caverne, prima di arredarle, ornò le grotte: è inequivocabile il fatto che non ci sono pervenuti esempi di arredi cavernicoli, bensì meravigliose forme estetiche di decorazione. Nei primi segni tracciati alla cieca nell’oscurità vediamo due caratteristiche: il gesto irrazionale, spontaneo, istintivo, barbarico, privo di tecnica, e poi, quasi immediatamente dopo, una parvenza di razionalità nei segni diagonali, nei cerchi che contengono quadrati, segni istintivi ma tracciati da una mente ordinatrice. Ricordo una meravigliosa funzione di arredamento che diviene fatto architettonico e plastico in un interno di una capanna africana. 

La fotografia era a colori e così ho potuto rendermi conto dei valori cromatici dell’ambiente. II pavimento era in terra battuta, più perfetto di un pavimento in gomma dei nostri giorni. Immaginate poi un luogo molto più piccolo di questa sala, un rettangolo prolungato: la porta alle spalle era l’unica fonte di luce, mentre verso il fondo era il letto dei genitori disposto su una muratura, una sorta di gradone, rivestito con stoffe tessute a mano, alla stessa maniera in cui i greci piegavano i cuscini sulle loro sedie… In quella capanna africana mancavano completamente il senso della decorazione, l’idea della bellezza e dell’adornare. Mentre a Pompei, invece, in quella evolutissima civiltà, troviamo la decorazione… Gli esempi che faccio vogliono dimostrare che l’architettura moderna non può fare a meno della conoscenza di valori architettonici che sono sempre esistiti. 
Cos’è, ad esempio, una stanza del Rinascimento? Vi si trovano delle membrature architettoniche che formano scomparti ove possono apparire delle pitture prospettiche. 
Si dice che la prospettiva apre lo spazio, ma io mi permetto di affermare che non è vero. Basta andare a Maser o alla villa Valmarana per accorgersi che l’impressione del muro permane sempre. Intendo dire che il senso dello spazio non è dato da un ordine pittorico, ma sempre da fenomeni fisici, cioè dalla materia, dal senso del grave, dal peso del muro. 
Per questa ragione affermo che sono le aperture, i varchi e i trapassi che realizzano i rapporti spaziali. L’architettura moderna, astrattamente stereometrica, distrugge ogni sensibilità per la membratura e la scomposizione… 
Abbiamo creato il nulla intorno alle cose.

Che potremo offrire quando decideremo di partecipare con le nostre opere alla creazione di una vita più eloquente per le persone?… Non abbiamo più muri di grosso spessore: noi tendiamo a spessori estremamente sottili, abbiamo persino abolito il muro qualche volta diciamo che tutto ciò è un fatto spaziale, ma non lo è affatto, perché il valore spaziale è difficile a dirsi. Non è possibile pensare ad un greco antico seduto: così l’architettura è sempre verticale ed effettivamente le membrature classiche sono sempre verticali, mentre oggi vi è una tendenza all’orizzontalità…

Per ottenere qualche cosa bisogna inventare dei rapporti. Ma uno potrebbe dirmi: “Vedi, dunque, che la decorazione non c’entra?”. Eppure vi dico che c’è un momento in cui dovrete pur immaginare il cromatismo delle cose – farete pure un pavimento, un soffitto, delle pareti: le volete tutte bianche? Anche nella progettazione di un semplice spazio cubico intervengono dei piccoli ragionamenti, un alfabeto, forse una grammatica. È una facoltà curiosa quella che ci permette di intuire che un preciso fatto dimensionale, uno spessore, ad esempio, è una qualità eminente del valore fisico delle cose… L’arte moderna ci ha permesso di vedere con occhi nuovi alcuni fenomeni della materia e ci ha consentito scoperte di fatti naturali importantissimi. Possiamo ammirare la corteccia e gli alberi senza impacci, non più vincolati dall’eloquenza della tradizione. Quali uomini del nostro tempo abbiamo riscattato molte cose sia moralmente che socialmente. Ma come architetti non abbiamo ancora riscattato la forma delle cose umili e semplici.

Trascrizione della conferenza all’Accademia delle Belle Arti di Vienna nel 1976

Può l’architettura essere poesia? 

Sono molto commosso: la tradizione dei miei studi, per una sorta di naturale affinità geografica, mi ha portato ad essere più vicino alla modernità che veniva da Vienna, con i nomi gloriosi che voi tutti conoscete. Naturalmente, l’artista che più ho ammirato e che più mi ha istruito era colui che aveva la possibilità di essere maggiormente pubblicato sulle riviste tedesche (ricordo “Moderne Bauformen” e “Wasmuths Monatshefte”), Josef Hoffmann. In Hoffmann vi è una profonda espressione del senso della decorazione che, in studenti abituati all’Accademia di Belle Arti, faceva pensare, come afferma Ruskin, che “I’architettura è decorazione”. La ragione di tutto ciò è molto semplice: in fondo io sono un bizantino, e Hoffmann, in fondo, ha caratteri un po’ orientali – dell’Europa rivolta ad Oriente. Chi conosce le forme espressive dell’arte di questo architetto, dovrebbe acconsentire con ciò che dico… In verità e purtroppo, io discendo, per tradizione culturale, dal monumento a Vittorio Emanuele li a Roma. lo ero, infatti, il migliore allievo del mio professore d’Accademia, che a sua volta era stato il migliore allievo dell’autore di quel monumento. 

La povertà spirituale di quell’epoca era dovuta al fatto che gli insegnanti delle accademie di belle arti condividevano il gusto eclettico del XIX secolo. Per questo abbiamo dovuto fare una certa fatica per liberarci dalla nostra formazione scolastica. 
Uno sforzo che, del resto, bisognerebbe sempre fare per raggiungere quel senso di autorità morale che un individuo, nel campo dell’arte, deve conquistare per potersi dichiarare artista. Bisogna sempre uscire dall’alveo materno. 
Per me, ad esempio, è stata una fortuna trovare il volume intitolato Vers une architecture di Le Corbusier al termine della scuola: rappresentò un’apertura dell’anima; da allora le condizioni spirituali mutarono totalmente. Questo per ricordare le tappe di una piccola vita che non pretende di essere quella di un maestro, anche perché penso che i maestri, in questo momento, sono tutti morti. Maestro, infatti, è colui che esprime delle cose nuove che altri possono capire… E i grandi architetti moderni non ci sono più. L’ultimo, Louis Kahn, se ne è andato in modo non bello – sono perdite insostituibili… “L’architettura può essere poesia?”. Certo. Lo ha proclamato F. LI. Wright in una conferenza a Londra. Ma non sempre: solo qualche volta l’architettura è poesia. La società non sempre chiede poesia. Non bisogna pensare: “farò un’architettura poetica”. La poesia nasce dalle cose in sé… La domanda dovrebbe essere questa: “Quando è poesia una base attica e quando non lo è?

Possiamo dire che l’architettura che noi vorremmo essere poesia dovrebbe chiamarsi armonia, come un bellissimo viso di donna. Ci sono forme che esprimono qualche cosa. L’architettura è un linguaggio molto difficile da comprendere – è misterioso, a differenza delle altre arti, della musica in particolare, più direttamente comprensibili. In Giappone, ad esempio, si avvertono due tendenze ben distinte: il buddismo, di derivazione cinese, e lo shintoismo, che rappresenta il Giappone autentico; tutto il nostro gusto moderno e il nostro giudizio critico vanno verso lo shintoismo – tanto è vero che l’architettura cinese, pur molto gloriosa, non ci piace. Il valore di un’opera consiste nella sua espressione – quando una cosa è espressa bene, il suo valore diviene molto alto.

Trascrizione della conferenza tenuta a Madrid nel 1978
Carlo Scarpa- Mille Cipressi – Conferenza tenuta a Madrid nell’estate del 1978
F. Dal Co G. Mazziarol “Carlo Scarpa Opera Completa” Electa 1984-1992 

Mille cipressi


Per la tomba Brion, avrei potuto proporre di piantare mille cipressi – mille cipressi sono un grande parco naturale e un evento naturale, nel futuro, avrebbe ottenuto un risultato migliore della mia architettura. Ma come sempre avviene alla fine di un lavoro, ho pensato: “Dio mio, ho sbagliato tutto!”.

È però probabile che colui che ha costruito le piramidi non ragionasse così… Noi non abbiamo certezze – tutto è opinabile, tanto è vero che c’è una grande confusione nell’architettura, mentre nel passato, ad esempio, le architetture della Catalogna erano simili a quelle della Francia, della Provenza, dell’Italia, della Sicilia. Quel mondo parlava un linguaggio molto simile.

Relativamente al progetto Brion, la prima idea mi è venuta così: bisognava entrare nel vecchio cimitero, attraverso il tradizionale viale dei cipressi che esiste in tutti i cimiteri italiani, e sistemare una specie di edicola. Esistevano molte tombe brutte, di campagna, ed edicole funerarie; così ho deciso improvvisamente che sulla vasca d’acqua dovesse esserci un elemento prospettico di interruzione. A me piace molto l’acqua, forse perché sono veneziano… ho disegnato il corso d’acqua, che sorge da un certo punto, e, al sole, ho disposto i due sarcofagi che devono contenere i corpi della moglie e del signor Brion… Il muro di cinta inclinato ha in un punto una piccola apertura a forma di celata. Coloro che si trovano all’interno possono guardare fuori e vedere la campagna, mentre chi invece si trova all’esterno non può vedere dentro. In tal modo si crea un luogo intercluso. Ho piantato subito i cipressi, appena iniziati i lavori… Nella cappella dei parenti, attualmente c’è un’unica vera tomba, mentre gli altri defunti sono ricordati da pietre disposte a terra. 
Mi sono accorto che dovevo studiare una soluzione per il parterre sotto la cappella, perché il terreno rimane arido – bisognerebbe sempre definire tutto – ma il materiale non è adatto, ci vorrebbe la pietra dell’Escorial. D’estate è molto bello; volano le rondini… Questo è l’unico lavoro che vado a vedere volentieri, perché mi sembra di aver conquistato il senso della campagna, come volevano i Brion. Tutti ci vanno con molto affetto; i bambini giocano, i cani corrono: bisognerebbe fare tutti i cimiteri così e, infatti, ne avevo ideato uno per Modena abbastanza interessante.

Ho adottato dei trucchi. Avevo bisogno di una certa luce e ho pensato tutto secondo un modulo di 5,5 centimetri. Questo motivo che pare una sciocchezza è invece molto ricco di possibilità espressive e di movimento… Ho misurato tutto con i numeri 11 e 5,5. Siccome tutto nasce da una moltiplicazione, tutto torna e ogni misura risulta esatta. Qualcuno potrebbe obiettare che le misure tornano esatte anche usando un modulo di 1 centimetro – non è vero, perché 50 per 2 fa 100, mentre 55 per 2 fa 110, e con un altro 55 fa 165, non più 150, e raddoppiando si fa 220 e poi 330, 440. In tal modo posso frazionare le parti, e non avrò mai 150 ma 154. Molti usano i tracciati regolatori o la sezione aurea; il mio è un modulo molto semplice che può permettere dei movimenti – il centimetro è arido, mentre nel mio caso si ottengono dei rapporti. In altre occasioni, infatti, ho trovato molto piacevole lavorare con il sistema di misurazione inglese, che è molto ricco di possibilità.
Mi ricordo che, in occasione dell’allestimento della mostra dei disegni di Mendelsohn a San Francisco, mentre io disegnavo le mie sezioni, c’era un tecnico che pareva un tagliaboschi e che utilizzava misure in pollici. Le sue misure corrispondevano solo in parte a quelle che avevo preso io, e allora ho dovuto accettare le sue, perché in tal modo lui vedeva la materia prima, il legname tagliato secondo sezioni stabilite… [Nel tempietto della tomba Brion] ci sono delle piccole finestre che illuminano l’altare, e sopra c’è un cupola in legno con una finestra che si apre elettricamente. Per terra c’è una pietra e poi delle vetrate per illuminare l’altare. 

In origine i vetri li volevo trasparenti, poi ho provato ad utilizzare l’alabastro e quindi il marmo rosa del Portogallo, che filtra una bellissima luce pertutto il giorno. L’altare è in bronzo (è stato un infortunio sul lavoro). loro volevo farlo in cemento armato, con l’aggiunta di un additivo americano chiamato Mc Master, poiché avevo scoperto che se si getta il cemento su una superficie lucidissima il materiale resta lucido. Dato però che questi additivi sono a base dì ferro, quando abbiamo fatto il getto questo appariva come una torta: una cosa infame. Allora ho distrutto tutto. Ma, a mio giudizio, oramai il disegno andava bene. E così ho utilizzato una lamiera in bronzo al silicio e ho riempito il tutto di cemento armato per evitare che risuonasse. L’intonaco dipinto è quello che faccio spesso, usando colla e gesso, in modo che l’impasto formi uno stucco. Quando è fatto, lo si tratta con uno strumento adatto, e diventa lucido e morbido come la seta. Ora è un po’ rovinato perché non è riscaldato; la condensa lo fa diventare maculato. Qualcuno ha detto: “Che bello! sembra un Tapiès… però non è vero”. Sono infortuni che capitano non pensando alle cose. Avrei dovuto usare un materiale diverso, però quel risultato si poteva ottenere solo con quel materiale.

La porta alla Mondrian è stata fatta in ferro; una persona che la guarda può vedere lo scintillio delle luci e, alla mattina, il sole fa sì che le pareti si illuminino in modo diverso. Non so se i giovani sentano queste cose, ma non importa: se l’architettura è buona, chi la ascolta e la guarda ne sente i benefici senza accorgersene. L’ambiente educa in maniera critica. II critico, invece, è colui che scopre la verità delle cose… Una volta Le Corbusier disse a uno studente: “Ci medito su – cerco di pensare continuamente”. Adesso ho per la testa un progetto per un negozio a Venezia, per un cliente molto danaroso. Poiché non posso toccare nulla, debbo fare una pelle, una fodera – ma quale è la più idonea in quel posto?…

lo non ho fatto molti lavori ex-novo. Ho messo a posto musei e allestito mostre, operando sempre in un contesto. Quando il contesto è obbligato, forse, un lavoro diventa più facile. Consideriamo il caso del negozio Olivetti. II negozio era costituito da una parte anteriore e, dopo un muro, c’era un altro ambiente. Bisognava salire al piano superiore; vi erano degli spazi obbligati, un pilastro centrale, due finestre – dove mettere la scala? Ho deciso di metterla nel punto in cui guadagnavo degli spessori. Dovevo anche violentare le cose; mettendola nel punto più difficile, potevo buttar via – e mi interessava buttare via. In tal modo, potevo cogliere meglio la lunghezza. Intuito il problema, si comincia ad operare – la scala è piuttosto bella, sono blocchi di marmo accostati… 

Le cose a me vengono lentamente, se c’è uno spunto di partenza. La conclusione dovrebbe trovare ragioni razionali, ineluttabili, che però non hanno niente a che fare con il razionalismo e il funzionalismo. È una scala costosissima. Però Olivetti poteva permettersela – per il re, si può fare un palazzo reale.
E poi il tema era: “Un biglietto da visita in Piazza San Marco”. Non un negozio qualunque. Chiesi al committente: “Cosa volete? Devo fare degli uffici?” – “No, no… un biglietto da visita”… Mi voglio confessare: ci terrei che un critico scoprisse nei miei lavori certe intenzioni che ho sempre avuto. Vale a dire, un’enorme volontà di essere dentro la tradizione, ma senza fare i capitelli o le colonne, perché non si possono più fare. Neppure un dio inventerebbe oggi una base attica. 

Solo quella è bella – tutte le altre sono scorie; persino quelle di Palladio, sotto questo aspetto, sono porcherie. Nel trattare colonne e trabeazioni, solo la Grecia ha raggiunto l’apice della fierezza. Solo nel Partenone le sagome vivono come musica… AI Castelvecchio, tutto era falso… AI Museo si poteva accedere da sopra e da sotto, da davanti e da dietro. lo, invece, ho detto: al museo si accede da un unico ingresso – si fa un giro totale, si sale ai piani superiori, si torna giù e si esce da dove si è entrati. È un problema “razionale”: gli uscieri costano – così è venuto meglio. Ho messo dell’acqua e due grandi siepi; ho deciso di adottare alcuni valori ascendenti, per rompere la simmetria innaturale: lo richiedeva il gotico e il gotico, soprattutto quello veneziano, non è molto simmetrico. Qui andava fatta un’altra cosa, ma poi mi sono stancato… sì, perché io non finisco mai i miei lavori… Se vi sono delle parti originali, vanno conservate; qualunque altro intervento deve essere disegnato e pensato in maniera nuova. Non si può affermare: “lo faccio il moderno – metto acciaio e cristalli”; può andare meglio il legno, oppure potrebbe essere più adatta una cosa modesta. Come si possono affermare certe cose, se non si è educati? educati, come dice il Foscolo, “alle istorie”, cioè ad una vasta conoscenza? se non vi è una educazione al passato?

Fonte: http://www.negoziolivetti.it/lectio-magistralis-di-carlo-scarpa

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