Nonluoghi e rapporti con il D.I. 395 del 16/09/20
gli spazi anonimi delle periferie urbane possono essere riprogettati
Con il “Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare” gli spazi anonimi delle periferie urbane possono essere riprogettati.
Cosa significa nonluogo? A coniare il termine fu Marc Augé con il libro “Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité”, tradotto in italiano nel 1996 come “Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità”. Nonluoghi sono centri commerciali, stazioni ferroviarie, periferie prive di centri di aggregazione, incapaci di generare nella popolazione senso di appartenenza. Non vi sono periferie urbane visitate da turisti e gli stessi abitanti preferiscono spostarsi altrove per trascorrere il loro tempo libero. I luoghi identitari, al contrario dei nonluoghi, sono carichi di valori simbolici, di riferimenti per una comunità e per i singoli, nei quali gli individui si riconoscono e i visitatori sono in grado di coglierne gli elementi distintivi, specifici.
Sono luoghi identitari i centri storici o quelli a forte valenza ambientale che, proprio per questo, rappresentano una meta turistica. Tra popolazione e luoghi esiste una relazione profonda, come messo in evidenza dalla Convenzione Europea del Paesaggio. Questa relazione fa sì che i luoghi diventino unici, speciali, grazie alle loro caratteristiche naturali, culturali e immateriali, che si plasmano e si incontrano con la morfologia dei luoghi, ne enfatizzano i caratteri identitari. Tutto ciò manca nei nonluoghi, che sono incapaci di creare una rete di relazioni reciproche tra attività, funzioni, persone.
Il “locus”, è stato definito negli anni ’60 da Aldo Rossi come:
“Il singolare eppure universale rapporto che esiste tra una certa situazione locale e le costruzioni che stanno in quel luogo”
Il locus rappresenta lo spirito del luogo presente nei centri storici delle città e assente nelle periferie, alle quali manca la riconoscibilità, il senso di appartenenza. I progetti per le periferie dove esistono solo le residenze, dove la speculazione edilizia ha impedito ogni funzione aggregativa e sociale di tipo pubblico, devono ricostruire queste relazioni, “ricucire” come dice Renzo Piano, quel senso di appartenenza tra cittadini e costruito, tra spazi aperti e spazi chiusi. L’opportunità di effettuare questa ricucitura è offerta dal Decreto Interministeriale 395 del 16/09/2020 nel quale sono precisate le: Procedure per la presentazione delle proposte, i criteri per la valutazione e le modalità di erogazione dei finanziamenti per l’attuazione del “Programma innovativo nazionale per la qualità dell’abitare”. Con questo programma, i comuni con una popolazione superiore a 60.000 abitanti, hanno la possibilità di rigenerare “in un’ottica di innovazione e sostenibilità (green)” gli ambienti degradati dei territori urbani.
Il Decreto può rappresentare l’occasione per recuperare gli spazi residuali, periferici, cercando di riprogettare la periferia come luogo di relazioni di vita e di rapporti, salvandola dal ruolo di quartiere dormitorio. La sfida è dunque quella di salvare porzioni importanti di città dall’eterotopia, cioè di spazio che, come definito dal filosofo Michel Foucault, è il contrario di utopia, rappresentando un luogo in cui gli spazi sono tra di loro connessi ma annullano i rapporti umani.
La periferia è fatta di quartieri dormitorio a forte densità, ma anche del fenomeno della città diffusa, allargata e disomogenea, in cui l’urbanistica ha fallito e l’architettura non è riuscita a dare senso di appartenenza, spazi in cui gli individui si incrociano ma non si incontrano, non hanno relazioni. Un mondo in cui, perdendo il senso di socialità, l’individuo, coccolato dai centri commerciali, diventa un consumatore. Le caratteristiche dell’individuo sono studiate in maniera attenta tanto che i suoni, le caratteristiche e dimensioni dei percorsi, le posizioni delle segnaletiche, i luoghi di sosta, tutto è studiato per indurre a comprare.
Gli spazi commerciali sono spesso dei veri e propri modelli replicati con le stesse caratteristiche in ogni parte del mondo, tanto da generare uno straniamento rispetto al territorio nel quale sono inseriti.
In questi ambienti l’individuo diventa uno spettatore o, meglio ancora, un consumatore. Ma oltre a questi ambienti superspecializzati, e dunque progettati in ogni dettaglio, vi sono spazi residuali, non progettati, spazi lasciati con sciatteria, come quelle porzioni di territorio vuote o con scheletri di edifici incompiuti o abbandonati, come le aree di urbanizzazioni secondarie, mai realizzate in tante periferie italiane.
Il programma incentivato dal governo sembra avere l’occhio attento a tutte queste possibili differenze di uso dei territori e punta a cinque linee di azione:
- riqualificare, incrementare e riorganizzare il patrimonio edilizio;
- rifunzionalizzare aree e immobili pubblici;
- migliorare l’accessibilità e la sicurezza;
- rigenerare gli spazi costruiti;
- individuare modelli e strumenti di gestione, inclusione sociale, anche con autocostruzione.
La città è un insieme di relazioni aperte a più soggetti, il futuro del territorio italiano è fatto di rilettura di spazi, con progetti di recupero e rivitalizzazione per quella sorta di terrain vague presente nelle aree di frangia del territorio italiano. È una sfida che impone di pensare alla città nel suo insieme, senza marginalizzare le periferie, allargando il campo d’indagine e a una pluralità di professionisti: sociologi e antropologi, artisti, urbanisti, ingegneri, architetti, pubblicitari, ecc.
Alcuni non luoghi delle periferie, spazi residuali, sono stati rifunzionalizzati dagli abitanti e sono diventati campi di calcio improvvisati, luoghi di raduno per mercatini. Ai progettisti delle “ricuciture” di queste parti di città converrebbe tenere conto delle esigenze delle popolazioni qui insediate, dall’uso degli spazi da parte degli abitanti, partendo dalla percezione del territorio da parte di chi ci abita, coinvolgendo gli abitanti nella ricostruzione e gestione degli spazi comuni.
Il bando sulle periferie sembra andare anche in questa direzione, rimarcando come gli interventi debbano
“mirare a soluzioni durevoli per la rigenerazione del tessuto socioeconomico, il miglioramento della coesione sociale, l’arricchimento culturale, la qualità dei manufatti, dei luoghi e della vita dei cittadini, in un’ottica di innovazione e sostenibilità”.
I progetti debbono, altresì, “essere coerenti con i principi e gli obiettivi della strategia nazionale per lo sviluppo sostenibile e il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici e secondo il modello urbano della città intelligente, inclusiva e sostenibile (Smart City)”.